• Chi ha paura di Moby Dick?

Eroi e anti-eroi dell’America puritana di Herman Melville

copertina moby dick
Herman Melville: “Moby Dick o la Balena” Edizione Gli Adelphi

La lettura (e specialmente il relativo approfondimento) di un romanzone com’è “Moby Dick o la Balena”, nel bene o nel male, non può non lasciare il segno. Anzi, ne lascia parecchi e a diversi livelli.

Il primo ci riguarda, per così dire, “geneticamente”: “Moby Dick” è un personaggio che sembra accompagnarci da sempre, che pare far parte di noi stessi, della nostra cultura (per quanto limitata) e del nostro lessico; ci riferiamo alla balena con assoluta disinvoltura, usandola come termine di paragone o entità simbolica, nella certezza che tutti comprenderanno il nostro riferimento. Addirittura, in Italia, la politica si appropriò del suo gigantismo e del suo colore per dare una definizione “forte” della vecchia Democrazia Cristiana, almeno apparentemente immortale e feroce. Senza dimenticare, poi, i numerosi tributi artistici, come quello musicale, importante, del “Banco del Mutuo Soccorso”.

Sentiamo, insomma, la “Balena Bianca” come congenita nel nostro stesso DNA. Eppure il romanzo è stato tradotto in italiano, da Cesare Pavese, solo in tempi relativamente recenti, nel 1932, circa ottanta anni dopo il “the end” apposto da Herman Melville a quello che è universalmente riconosciuto come il suo capolavoro.

In secondo luogo, non è possibile prescindere dalla forma del libro, che si presenta come una moderna commistione di generi, essendo sostanzialmente composto, oltre che dal racconto vero e proprio, anche da generosi intermezzi saggistico/divulgativi e da momenti di vero e proprio teatro di chiara ispirazione drammaturgica shakespeariana, se non addiruttura greca: molti dei capitoli sono sottotitolati con un anticipo degli avvenimenti in divenire o con una descrizione del luogo o modo nei quali si svolgono (“Entra achab, poi Stubb” o “Stubb e Flask uccidono una balena franca, e poi ci discorrono sopra”), mentre alcuni di essi (dal 37 al 40, in particolare) sono palesemente scritti in forma di copione teatrale. In fondo, gli avvenimenti narrati racchiudono già un epilogo scontato: quello che succederà è già scritto nel destino di ognuno dal più grande dei drammaturghi, come vedremo in seguito.

L’approccio a questo intreccio di generi e argomenti è certamente diversificato a seconda dei casi.

Mentre il racconto vero e proprio è avvincente e spesso percorso da momenti di forte ironia, bisogna sinceramente ammettere che molte delle parti didascaliche soffrono di pesantezza e scarso interesse, risultando a più riprese piuttosto noiose. Le disquisizioni di carattere scientifico (valgano per tutte l’accenno alla frenologia in riferimento alla testa di Quiqueg – in uno dei primi capitoli – o la definizione di balena come “pesce con la coda orizzontale”), rappresentano un fedele “report” delle conoscenze dell’epoca e possono oggi far sorridere. Sono però anche un segno degli ampi interessi coltivati e generosamente profusi da Melville nel corso del racconto: filosofia, letteratura (compresa quella riguardante gli antichi bestiari), storia, arte, antropologia, geografia…

Alla sua pubblicazione, il risultato complessivo fu ritenuto troppo innovativo, “moderno”, ed il libro riscosse un successo tutt’altro che lusinghiero.

Ma ciò che veramente colpisce e coinvolge nell’opera è lo spesso humus a carattere religioso che pervade tutto il romanzo, lo sostiene e gli dà senso e chiavi interpretative.

La Bibbia e la morale calvinista puritana sono il costante filo conduttore sul quale, se così si può dire, naviga il “Pequod”.

I nomi biblici dei personaggi sono una prima traccia che va seguita con attenzione, perché ad ogni nome corrisponde una caratteristica, un’impronta morale, un significato ben preciso ricercato – e da ricercarsi – tra le Scritture. Primo fra tutti, Ismaele (alter ego di Herman Melville e voce narrante), un vagabondo che prende nome dal figlio ripudiato di Abramo e Agar, esuli nel deserto e quindi a loro volta vagabondi (Genesi).

Lungo il percorso, si incontrano Giona, il Leviatano, il giuramento di fedeltà ad Achab e alla sua vendetta che viene santificato addirittura – nel capitolo 36 – dalla condivisione del grog, richiamando spudoratamente il pensiero alla mensa eucaristica attorno alla quale i balenieri si stringono in una sorta di Ordine o Confraternita, come Ismaele/Melville definirà più volte, successivamente, la baleneria del mondo. Tutto questo senza dimenticare la tetra figura di Fedallah, vero e proprio “demone custode” che segue e protegge il comandante-peccatore fin quando, soccombendo alla potenza di Moby, non potrà evitarne la fine.

La potenza di Moby, dunque, il cui stesso colore bianco (di cui si disquisisce abbondantemente in un intero capitolo), nella sua sacralità, suggerisce purezza e incute terrore.

Il cetaceo è splendido e terribile, forse immortale e ubiquo (i balenieri di ogni provenienza ne sono convinti): è come Dio, è Dio! Così, al momento della resa dei conti (cap. 135), “parve posseduto, in una volta, da tutti gli angeli precipitati dal cielo”.

E per finire, sempre in quest’ottica, non possono essere dimenticati né Elia (personificazione del credo calvinista, visionario e profeta della predestinazione del “Pequod”) né la nave “Rachele”, non a caso alla ricerca di un figlio perduto e non a caso artefice del salvataggio di un nuovo orfano, quell’Ismaele che ha perso la sua casa e la sua famiglia: il “Pequod” con tutto l’equipaggio.

Nel corso della narrazione, Ismaele, pur dimostrandosi più volte un convinto credente, non si sbilancia mai in nette prese di posizione interpretabili dottrinalmente, ma si limita a narrare gli avvenimenti nella loro asciutta linearità. Forse in questo atteggiamento si nasconde il segreto della sua salvezza.

Tuttavia appare chiaro (questa volta in Melville, non nel suo “doppio”) il dito puntato contro chi si oppone a Dio e alla dottrina, contro chi, incurante del dovere di raggiungere la grazia attraverso i meriti del lavoro, preferisce perseguire un fine personale, come la vendetta.

A questo punto, è quasi ovvio pensare che il lettore si trovi naturalmente “schierato”: dov’è il Bene e dove il Male? Alla fin fine il romanzo è un romanzo, ha i suoi personaggi e le sue dinamiche, i suoi pregi e i suoi difetti. Quindi, lettori, amate e/o odiate Moby o Achab o Starbuck o Quiqueg a vostro piacimento.

Solo nel caso di dubbi cocenti, la lettura di Max Weber (“L’etica protestante e lo spirito del capitalismo”) potrebbe tornare utile, e alla luce delle mie (vaghe) reminiscenze universitarie… personalmente sto con Achab!


Moby Dick (1983)


Condividi o stampa:

Lascia un commento