• Pensieri virulenti

Considerazioni volanti in tempo d’emergenza

Tutta la faccenda, in verità, ha almeno un aspetto intrigante, che si mischia a tutti quelli più banali, come la rottura di zebedei, la preoccupazione del “quando finirà?” e – abilmente sottaciuto – il quesito sul “come ne uscirò?”. O meglio: “ne uscirò?”

Sia chiaro, non si tratta di dubbi legati alla sopravvivenza: quella nessuno è disposto a metterla in discussione, a costo di dolorosi tormenti autoinflitti a suon di gesti apotropaici. Piuttosto di quesiti epocali sulla confusione mentale che la reclusione forzata – e senza colpa, per di più – potrebbe provocare.

L’aspetto interessante è che forse potremmo uscirne tutti come ritrovati musicisti, chissà. Ma andiamo con ordine.

Lo svolgimento delle giornate si sussegue monotono nella transumanza dal letto (che al mattino continua a trovarci vivi) al bagno (dove bisogni e lavacri corporali, pulizia orale ed attività barbieristiche sono vistosamente declassati dall’ossessivo lavaggio delle mani), alla cucina (per la colazione), al divano (per sentire la TV continuare a parlare ossessivamente del problema), alla cucina (per merenda e caffè, o per preparare dolci mai tentati prima, o per entrambe le cose), al divano (nel tentativo di recuperare in TV le puntate de “I promessi sposi”, meglio se quelle sulla peste di Milano), alla cucina (si è fatta l’ora di pranzo), al bagno (è dal mattino che non ci si va), al divano (ufficialmente per le ultime notizie, realmente per una pennichella scacciapensieri), alla cucina (i ciambelloni preparati in quantità industriale devono pur essere consumati…).

All’interno di questa entusiasmante e colesterolico-glicemica routine è possibile introdurre l’atto dirompente che non può mancare di sconvolgere le esistenze: fuggire. Che tradotto in termini prosaici deve essere inteso: andare a fare la spesa.

In realtà i frigoriferi e le dispense sono stati riempiti a dismisura con italica sospettosità quando ancora uscire di casa non era considerato un reato, o giù di lì. Ma l’improvvisata industria di torte e ciambelloni alla quale abbiamo dato vita ha le sue necessità: zucchero, farina, latte, burro, cacao, panna da montare, uvette e canditi (oddio, le uova! Non bisogna dimenticare le uova!) si consumano in un batter d’occhio. E sono un’ottima scusa per uscire, morale ancor prima che legale. Malgrado questo, appena un attimo dopo aver messo piede fuori dal portone, chiunque sarà attanagliato da un profondo senso di angoscia, di tormento interiore, di paura. Quello che sostanzialmente vorrebbe essere un atto liberante, ci fa sentire sporchi, e non c’è mascherina o guanto di lattice che tenga. Ma mai demordere! Siamo usciti, alla faccia del virus e del governo. Nessuno può trattenerci e corriamo verso il supermercato (sì: siamo usciti per passare un po’ di tempo all’aperto eppure corriamo, per rientrare a casa al più presto, per scrollarci di dosso la pesantezza di un peccato tanto insopportabile quanto inesistente).

Ci accoglie il personale dell’esercizio, che in pochi giorni sembra essersi tramutato in un drappello di sanitari reduci da una sala operatoria. Inquietanti, ma al tempo stesso rassicuranti, perché quelle presenze indicano la meta raggiunta, e raggiunta alla grande, senza che nessuna guardia di nessun genere si sia accorta della nostra scappatella.

Si arraffa quel che si può dagli scaffali che ricordavamo più carichi e via, di nuovo verso casa, a lavarci e rilavarci le mani, ma specialmente la coscienza. Che non ne avrebbe bisogno.

E finalmente, l’orologio ci avverte che manca poco alle 18.00.

Con le mani che non sono mai state così pulite dai tempi del bagnetto post-parto afferriamo il mandolino, il triccheballacche, la cornamusa, la fisarmonica o l’ocarina per gettarci a capofitto nel più ambizioso e rivoluzionario progetto social mai tentato: far casino tutti insieme, ma a distanza. C’è perfino un ordine del giorno sulle canzoni da interpretare, ma poi – in fin dei conti – chissenefrega se a un distratto scappa “Funiculì, funiculà” e a un idiota un “viva il duce” al posto dell’Inno di Mameli: l’importante è esserci e spaventare il morbo con le nostre stecche.

In qualche minuto il rito del popolo cantante si consuma. Il morbo, probabilmente, non ha risentito di cotanto trasporto e gli eredi di Verdi e Pavarotti rientrano dai balconi per adagiarsi nuovamente sul divano, magari per rivedere “La guerra dei mondi”, dove i cattivissimi alieni – attaccati in ogni modo ma sempre vincenti – soccombono solo a causa di un microrganismo terrestre a loro sconosciuto.

Mal comune, mezzo gaudio… Meglio se con la consapevolezza che #andratuttobene!

Raffaele Corte (15 marzo 2020)

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