• A Giacinto… Detto Marco…

Memoria minima

L’ho incontrato una volta a piazza Navona, quand’ero ancora “regazzetto”.

O meglio: mi sono scontrato con lui (non politicamente: fisicamente). Mi ha impressionato per la sua asciutta imponenza: era più alto di quanto pensassi (e di me, che non sono uno gnomo), pantaloni e girocollo neri – un po’ alla moda degli esistenzialisti francesi -, e l’immancabile pendaglio col fucile spezzato a rappresentare il simbolo della Pace.
Ero ovviamente d’accordo su mille sue battaglie, ero molto incazzato con lui su quelle dalla 1001 in poi.

Non mi era simpatico (quel suo modo di fare totalmente opposto al mio, la sua veemenza, l’urlo teatrale che troppo spesso rasentava il ridicolo) non erano e non sono nel mio DNA, ma sprizzava fascino, carisma da ogni poro. Un fascino scaturito da quella che – certamente – era ed è un punto di unione tra noi due: la testimonianza concreta, continua, irriducibile delle idee.

Un grande, irrinunciabile pezzo della nostra Storia, proiettata al Futuro, che con orrore vedo dimenticare giorno dopo giorno alla ricerca di un passato sempre più remoto, sempre più remo… sempre più re… sempre più…

Meno “regazzetto” (siamo nel 2009 e ho passato il mezzo secolo con un discreto margine) ho avuto occasione di scattargli la foto che appare in alto nel corso di una manifestazione antirazzista.

Gliela dedico oggi.

La dedico a chi è stato padrone del proprio destino e capitano della propria anima, per dirla con W. E. Henley.

Raffaele Corte (20 maggio 2016)

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